In this section, Valerio Rocco Orlando meets international artists who founded multidisciplinary spaces in decentralized territories.

Dal privato al pubblico: Adrian Paci e Art House

Nella prima conversazione della serie, l’artista Adrian Paci parla della sua esperienza rispetto alla fondazione di Art House a Shkodër, Albania – uno spazio transdisciplinare dove convergono esperienze diverse per discutere il ruolo dell’arte nella contemporaneità.

Valerio Rocco Orlando: Ricordo che anni fa, quando eravamo insieme a Seoul, mi hai raccontato della scelta di recuperare la casa di famiglia nella tua città natale per offrire un’opportunità di confronto alle nuove generazioni di artisti albanesi. Vuoi fare qualche passo indietro e ricordare quale è stata la tua motivazione quando hai deciso di fondare Art House?

Adrian Paci: Credo che le motivazioni siano molteplici. Identificarne solo una è troppo poco per racchiudere un’esperienza così lunga e articolata. Mantenere qualcosa in vita per un lungo periodo richiede diverse motivazioni. L’idea di fondare Art House non è nata soltanto per dare un’opportunità alle nuove generazioni, perché se fosse nata così ci sarebbe stato un problema. Considerare quello che puoi offrire come un’opportunità per gli altri ti mette in una condizione di superiorità.

Fondamentalmente ho fondato Art House in Albania perché volevo mantenere delle relazioni. Me ne sono andato nel 1997, in un momento particolarmente drammatico, e mi sono staccato dal contesto albanese. Ero già venuto in Italia varie volte – mi figlia è nata in Italia – ma nel 1997 c’è stato un vero e proprio distacco, e questa cosa mi ha pesato, perché sono stato costretto a fare questa scelta. A partire dal 2005 ho cercato di riattivare un rapporto con il contesto dal quale venivo. Quindi possiamo dire che la prima motivazione sia stata il mio desiderio di ritornare in Albania. Inoltre, casa mia era nel centro di Shkodër, una casa costruita male da mio padre e dai miei zii, una casa che aveva bisogno di continue riparazioni. Sono cresciuto in questa casa che era sempre in riparazione, con mia madre che si dava sempre da fare a contattare muratori per sistemare piccole cose. Quindi forse una delle motivazioni principali, in fondo, era quella di vedere la mia casa di famiglia finita. Un altro aspetto, sempre legato al contesto in cui abitavo, era questo processo iniziato a metà degli anni 2000 che sia Albania, sia nel mio quartiere, ha visto le case, le villette, lasciare spazio alla costruzione di palazzi che hanno preso il posto di queste abitazioni – incentivando i proprietari delle case a cedere i terreni in cambio di appartamenti nuovi. Questo processo, che ha stravolto l’area sia dal punto di vista dei volumi architettonici ma anche delle relazioni, era accompagnato da situazioni violente, una violenza e un’impotenza da parte di chi subiva questo processo di urbanizzazione, e appunto la violenza di chi esercitava una forma di esproprio, e io volevo inserirmi in questa logica. La soluzione a cui ho pensato è stata semplicemente quella di fare qualcosa di nuovo. La casa era messa male, aveva bisogno di un grosso intervento di ristrutturazione, e avrei potuto cederla per fare spazio alla costruzione di un palazzo nuovo, ma non volevo cedere. Ho deciso di fare qualcosa di radicale, e ho abbattuto la vecchia casa, e insieme a un mio amico architetto di Milano, Filippo Taidelli, abbiamo pensato a un progetto. Ovviamente non era mia intenzione costruire una villetta per le vacanze, e lì e nata l’idea di dare a questo spazio un uso diverso. In questa stratificazione di motivazioni possiamo anche parlare del fatto che mio padre è un’artista, ha lasciato tanti lavori – fra cui molti disegni – e non aveva nessun senso portarli con me in Italia; dovevo costruire uno spazio dove poter tenere questo materiale. Ho pensato che questa iniziativa potesse essere un gesto di resistenza alla devastazione urbana: grazie alla preservazione di alcuni elementi della vecchia casa, costruire un’abitazione per permettermi di andarci regolarmente, ospitare i lavori di mio padre, e infine farla diventare un luogo in cui ospitare amici del mondo dell’arte internazionale, e creare un dialogo con la scena locale, ovviamente con un focus specifico sui giovani artisti albanesi. Alla fine, la casa da luogo privato è diventata un luogo pubblico, da una realtà legata a un contesto locale è diventata uno spazio di dialogo internazionale. 

Courtesy: Art House. Photo: Jetmir Idrizi

VRO: Mi interessa molto questo slittamento dal privato al pubblico. South of Imagination mi sta portando a recuperare un’immobile pubblico attraverso un’impresa personale, che poi verrà restituita al pubblico. A Matera nel tempo i contadini sono stati sfollati ma rimangono tracce di quel vissuto all’interno del patrimonio culturale della città. La mia idea è quella di riportare i ragazzi nel centro storico di Matera perché da molti anni ormai vivono quasi tutti in periferia. Per questo la dialettica di cui parli mi interessa, e quando arriverò a Shkodër avrò la possibilità di osservare e comprenderne le dinamiche. 

AP: La dimensione dialettica fra pubblico e privato è molto interessante, racchiude però delle tensioni, ed è un terreno scivoloso. Va continuamente messo in discussione e messo a fuoco. 

VRO: È proprio a partire da questo che vorrei capire come si è sviluppata Art House negli anni, e quali sono gli obiettivi oggi di questa iniziativa. 

AP: L’obiettivo è quello di continuare questo dialogo interno al progetto, ma senza creare modelli fissi o atrofizzare questa esperienza. Vorrei mantenere viva l’urgenza da cui sono partito come una guida. Quando abbiamo inaugurato Art House con una mostra abbiamo anche organizzato un incontro, perché la mia intenzione è sempre stata quella di costruire un luogo di dialogo, non solo uno spazio dove andare a vedere delle opere, ma approfondire la possibilità dell’incontro con l’artista per capire qualcosa in più sulle opere stesse. Durante l’inaugurazione c’erano diverse centinaia di persone, ma il giorno seguente ne sono arrivate una quarantina – realmente interessate ad ascoltare e approfondire – e ho realizzato che quest’ultima in effetti era la misura giusta con cui poter attivare questo dialogo. Per tutto il 2016 abbiamo organizzato una serie di incontri con curatori e artisti, poi abbiamo deciso di creare momenti dedicati a workshop, momenti di comunione che andassero oltre queste conferenze. Bisogna dire che gli ospiti invitati a queste conferenze non si limitavano a partecipare agli incontri programmati; essendo una piccola realtà avevano la possibilità di fare studio visit, capire il contesto locale, la città, e prendere parte a cene, incontri informali con gli artisti e le personalità legate al territorio. I workshop ci hanno guidato verso la creazione di Art House School che è stata un’esperienza più articolata, con artisti giovani ma consolidati che per un mese hanno condiviso la loro esperienza. Sono stati messi a contatto con artisti e curatori invitati, e ognuno degli ospiti ha avuto l’occasione di fare una presentazione pubblica. A un certo punto c’è stata la necessità di uscire dal contesto della casa, come quando abbiamo portato una serie di film d’artista fuori dalle mura dell’abitazione. 

Courtesy: Art House. Photo: Stella Karafili

VRO: Quindi oltre a un progetto espositivo negli anni la programmazione è diventata una sorta di public program che è complementare all’offerta formativa delle istituzioni locali. È quello il ruolo che hai cercato di ricoprire?

AP: Volevo offrire qualcosa di diverso, e volevo fare qualcosa al di fuori delle strutture istituzionali, offrendo un momento di scambio di sapere e di esperienza in un contesto informale. Io credo che ci sia sempre un attrito fra il sapere vivo e il sapere codificato, e che questo rapporto vada sempre mantenuto in tensione. A volte la scuola, le istituzioni, le strutture tendono ad atrofizzare il sapere, codificandolo e inserendolo all’interno di logiche sterili. A me interessa questa dimensione del sapere vivo, un sapere che si produce nell’esperienza, in una sorta di moto irregolare. Questo forse è dovuto al fatto che anche io sono figlio di un processo di apprendimento un po’ caotico. Ho studiato all’interno del sistema accademico in Albania che mi ha dato dei punti di riferimento, ma che allo stesso tempo mi ha portato ad abbandonarli, e tutti gli altri tipi di conoscenza li ho dovuti apprendere in maniera non organizzata. A questo proposito va detto che esiste un rapporto fondato sul desiderio; fra chi vuole conoscere e il sapere stesso – che è più vivo rispetto alla dimensione strutturata codificata e organizzata dell’apprendimento. Art House ha voluto mantenere un rapporto fondato sulla casa, sull’amicizia, sugli incontri che si svolgono intorno al tavolo da pranzo, camminando, esplorando luoghi: questo è quello ha caratterizzato l’esperienza di Art House. Un altro esempio è la serie di pubblicazioni che abbiamo iniziato a produrre l’anno scorso durante la pandemia, attraverso il quale ci siamo dedicati alla traduzione in Albanese di diversi volumi. Questo aspetto è emblematico del nostro approccio: cercare quello che manca, riempire gli spazi, e non ripetere cose già fatte. 

VRO: Rispondere alle esigenze del territorio e alle domande del contesto socio-politico…

AP: Le esigenze del territorio sono fondamentali, e abbiamo capito che non sono solo legate a una realtà territoriale specifica, ma vanno oltre. Anche questa conversazione fra di noi, che parte dalla necessità di lanciare un’iniziativa in Basilicata, ha in realtà una risonanza più ampia, non strettamente legata a quel territorio, come anche il discorso intorno alle pratiche artistiche che necessitano una dimensione più intima, più radicata. 

VRO: Credo che sia stimolante la scelta di fondare un’iniziativa di questo tipo in un territorio decentralizzato, forzando le relazioni fra le istituzioni e il sistema dell’arte, che invece opera nei grandi centri urbani.

AP: L’ho fatto proprio perché sono convinto che questa esperienza sia qualcosa che manca ai miei interlocutori, e in un certo senso è qualcosa che manca anche a me. Non è soltanto un progetto in cui si vuole elemosinare un’occasione a qualcuno che ne ha bisogno, ma è un’offerta trasversale di esperienze e momenti di riflessione per persone e istituzioni consolidate anche all’interno del sistema dell’arte. Dunque, questa operazione non è soltanto un trasferimento di qualcosa dai grandi sistemi del centro verso la periferia, ma è il tentativo di creare un nuovo territorio di scambio. È nella logica stessa di questo movimento che viene messa in discussione la relazione fra centro e periferia, così come quella fra la dimensione privata e la dimensione pubblica. Non è un’esortazione a spostarsi dal centro verso la periferia, ma piuttosto un modo per sottolineare cosa significhi vivere questa tensione fondamentale. 

VRO: Sentendoci spesso in questi mesi mi è sembrato di capire che passi molto più tempo in Albania rispetto al passato. Qual è la relazione fra le attività di Art House, la tua pratica artistica, e la tua esperienza come educatore?

AP: Sicuramente questi tre aspetti producono un’influenza reciproca, ma non in modo sistematico o meditato; quando ho concepito Art House non l’ho pensata come un’opera d’arte, ma come un progetto al servizio dell’arte, per metterla in discussione. Io credo che l’arte succeda, e non si tratti di un oggetto che esiste in quanto tale. Il meccanismo di far succedere l’arte ha delle caratteristiche specifiche, mentre creare un meccanismo in cui l’arte viene discussa dall’interno e in maniera condivisa è diverso. Ho ancora questa idea legata al processo artistico – e dell’opera d’arte – che nasce da un profondo coinvolgimento individuale, un’individualità aperta, che entra in dialogo con il mondo, con le cose, con le immagini, con le storie, e anche con le persone. Si tratta di un’ossessione personale che dà forma a questi incontri con il mondo, che però vengono filtrati attraverso l’individualità. Art House non rientra in questo modello, ma è più vicina all’idea di discutere l’arte attraverso il dialogo fra più individualità. 

VRO: Qual è la differenza rispetto alle tue classi della Nuova Accademia di Belle Arti?

AP: In accademia ho un orario, uno stipendio, e so che devo insegnare una materia, sapendo che ci sono altri professori che insegnano altre materie. Per esempio, i corsi di pittura e visual arts si svolgono all’interno di una struttura regolata, mentre ad Art House è diverso, si parte da domande diverse; non ci sono professori e studenti, ci sono solo partecipanti. Anche nei miei corsi in accademia cerco di mettere in discussione le istituzioni artistiche, ma Art House è nata con uno spirito differente, e anche con una dimensione e numeri diversi. Art House poi, è un’iniziativa che si accende e si spegne a seconda delle necessità e delle occasioni, in maniera più flessibile rispetto al calendario accademico. In questo modo – e la nostra conversazione di oggi ne è un esempio – si possono creare delle occasioni senza dover necessariamente pianificare tutto, si innescano situazioni spontanee. Spesso mi scrivono persone che vogliono venire a Shkodër per visitare Art House, e in questo modo possono incontrare un gruppo di ragazzi, bere qualcosa, scambiare due chiacchiere. L’idea è quella di non tenere tutto sotto controllo, che è diverso da come concepisco e formalizzo le mie opere – anche se spesso si costituiscono attraverso il dialogo o l’incontro con qualcosa di imprevedibile. 

Courtesy: Art House. Photo: Jetmir Idrizi

VRO: L’incontro affrontato con spontaneità sfugge al controllo, non si sa mai dove ti porta. Sono davvero felice di andare in Albania. Credo sia un vero e proprio atto di resistenza viaggiare per incontrare gli studenti oggi, dopo un periodo così difficile di didattica a distanza. Hai qualche consiglio da darmi prima di questo viaggio? 

AP: Credo che sia importante il fatto che tu stia andando a incontrare studenti che non si occupano di arte. È una cosa molto difficile perché ad Art House solitamente ci vengono a trovare persone e studenti che sono quasi esclusivamente interessati alle pratiche artistiche. Aprire questa dimensione di ricerca e dialogo con realtà che sono curiose rispetto al mondo dell’arte, ma non per forza costitute da giovani artisti, credo che sia un aspetto molto interessante del tuo progetto. A Shkodër le persone vivono una realtà cruda, e bisogna capire come porre le domande giuste, sollevando istanze che abbiano una connessione con la profondità del contesto.

Giugno 2021