Secondo Michel Foucault, con l’avvento di Napoleone, assistiamo al passaggio da una società di sovranità a una società disciplinare. La società disciplinare si definiva attraverso la costituzione di spazi di reclusione: prigioni, scuole, fabbriche, ospedali, manicomi. Per William Burroughs siamo poi passati alla società di controllo in cui gli spazi di reclusione non sono più necessari, perché sostituiti dal subappalto e dal lavoro a domicilio. Nel campo dell’educazione, la scuola e la formazione vengono espletate contemporaneamente, attraverso la formazione permanente, che non comporta più la necessità di stare chiusi nello spazio di un’aula. Il controllo non coincide più con la disciplina. Così come in autostrada ci si può muovere liberamente e all’infinito, pur essendo sempre sotto controllo, lo stesso accade per l’informazione, che sostanzialmente equivale a far circolare parole d’ordine. Non a caso le dichiarazioni della polizia vengono chiamate comunicati. L’informazione è un sistema controllato dalle parole d’ordine che valgono in una determinata società. Vale forse questa definizione anche per l’educazione? E l’opera d’arte, invece?
Per Gilles Deleuze l’arte deve fare contro-informazione, trasformandosi in un atto di resistenza. Per André Malraux l’arte è la sola cosa che resiste alla morte. L’arte è ciò che resiste. Parafrasando la definizione di potere (che è parte integrante della relazione apprendimento-insegnamento) data da Foucault, per il quale il potere non è una cosa ma una relazione, lo stesso si potrebbe affermare rispetto all’educazione, la quale non è una somma di contenuti ma la relazione di due o più soggetti con ruoli diversi. Se provassimo a definire la trasmissione del sapere all’interno dell’istituzione come una relazione di poteri differenti, quale modello alternativo potremmo proporre?
Riflettendo sulla trasmissione di conoscenze all’interno della scuola, l’urgenza è quella di interrogarsi sulle relazioni degli studenti con gli insegnanti, sul contesto in cui entrambi vivono, sui loro rapporti con la famiglia e con gli amici, per far emergere dalla quotidianità il racconto in presa diretta, così come la presa di coscienza di un vissuto personale e collettivo. A partire dall’aula, che è il luogo in cui tradizionalmente il processo cognitivo prende forma, ma anche i corridoi, il cortile o la foresta diventano luoghi privilegiati in cui instaurare una relazione paritaria. L’incontro e l’esperienza stessa della conversazione rappresentano un momento significativo nel processo di creazione del lavoro. Per innescare uno scambio significativo tra artista, partecipanti e pubblico è fondamentale che la dimensione laboratoriale attivi una relazione di fiducia, dialogo e ascolto reciproco, di modo che ognuno decida consapevolmente, attraverso il confronto con gli altri, di riflettere sul proprio ruolo all’interno della scuola e, di conseguenza, nella società.
Il volto di un individuo narra una storia, tracciando la sua stessa biografia.
Su di esso si incrociano linee differenti, di varie origini, psicologiche, pragmatiche, storiche, sociali, culturali, fisiologiche, meccaniche: è una lavagna coperta di segni, autentico geroglifico di tracce eterogenee compresenti, sovrapposte, talora confuse e cancellatesi a vicenda. Per Rudolf Kassner “ogni carattere, volto, essere è metamorfosi”, in quanto polarità e in-differenza di tratti fissi e tratti mobili, fisionomia e mimica, statica e dinamica.
Sul grande schermo il volto dell’uomo assume dimensioni e proporzioni inconsuete, si fa mondo e paesaggio. Vedendo un volto isolato, scrive Béla Balàzs, ci troviamo all’improvviso soli, a quattr’occhi con quel volto e possiamo instaurare con esso una relazione caratterizzata da un’intimità, una vicinanza e una complicità in precedenza impensabili.
Dal momento che l’uomo non può essere come appare, semplicemente perché non si limita a essere, ma continuamente diventa, cambia, si trasforma per affermare l’assoluta singolarità del suo essere individuo, il volto non è più spazio, ma tempo. Il volto è storia, o meglio, racconta le sue storie; non dice il carattere ma le sue trasformazioni.
Leggere e interpretare queste storie richiede una facoltà conoscitiva peculiare, uno sguardo particolare che si fa sensibilità, facoltà intuitiva, istinto, immaginazione, esperienza vissuta, simpatia ed empatia naturale. Uno sguardo sentimentale che trae dal mondo visibile la chiave del mondo invisibile.
La comprensione autentica dell’altro avviene dunque attraverso una “reciprocità di sguardi”: il senso del volto si genera, di volta in volta, all’interno di una relazione polare-circolare, di perfetta co-risonanza vissuta tra ciò che oggettivamente appare e lo sguardo soggettivo. Tesi rafforzata dall’origine etimologica del termine “viso”, che indica proprio sia la visione che la vista e pertanto la piena reciprocità e interscambiabilità tra soggetto veggente e oggetto visto.
Sulla scia di queste considerazioni possiamo arrivare ad affermare che di fronte agli altri, osservandoci da vicino e nel profondo, in qualche modo arriviamo ad assomigliarci, creando nuove proiezioni e corrispondenze.
Per Martin Buber l’incontro (Begegnung) ha un’importanza che va oltre la compresenza e la crescita individuale. Quando un essere umano si rivolge a un altro e cerca di comunicare attraverso il linguaggio o il silenzio, tra i due individui avviene qualcosa che non è riscontrabile in nessun altro luogo in natura. Questo incontro, definito “la sfera del tra”, evidenzia la possibilità di essere pienamente coinvolti gli uni con gli altri, per incontrare se stessi.
Analogamente agli studi di Anthony Cohen, che analizzano i modi in cui i confini delle comunità vengono simbolicamente definiti e come le persone diventano consapevoli di appartenere a una collettività, la mia ricerca esplora il senso di identità che deriva dalla percezione simbolica della condivisione di un’esperienza.
A partire dal mio vissuto personale, ho dato vita in questi anni a una serie di progetti caratterizzati da un forte interesse sociale intrinsecamente legato a una profonda ricerca estetica. Le mie esperienze di produzione mi hanno portato a lavorare su differenti cicli di installazioni incentrate sulla relazione tra identità individuale e collettiva e sulle trasformazioni prodotte dalle relazioni sociali nei processi di formazione identitaria.
Attraverso gli strumenti dell’incontro, del dialogo, del confronto e analizzando temi come il rapporto delle generazioni più giovani con il folklore, le relazioni all’interno di una coppia e della scuola come istituzione, sono immerso in un’esplorazione trasversale del concetto di senso di appartenenza e di relazione tra individuo e comunità.
In osmosi con teorie contemporanee che attingono a diversi ambiti delle scienze sociali, antropologia, filosofia e psicologia, la mia ricerca nasce e si sviluppa a partire dalla convinzione che la nostra identità, in continuo movimento, vive all’interno di stratificazioni di memorie e cresce attraverso la condivisione di relazioni e sentimenti.
Non vi è differenza tra arte ed educazione. Entrambe rispondono a una profonda esigenza di analisi e conoscenza reciproca. In questo senso l’artista oggi ha una responsabilità concreta, non solo nella condivisione del processo di produzione dell’opera d’arte, ma anche in una sua restituzione formale che sia fruibile oltre i confini della sua comunità di riferimento.
Il mio esercizio si esplica allora in una riflessione sul ruolo stesso dell’artista, attraverso un invito, rivolto a ogni partecipante, finalizzato a stilare un identikit che ne sintetizzi le sue caratteristiche essenziali. Solo in una seconda fase, successiva a questa prima ricognizione, si potrà individuare nel territorio chi risponda a quei tratti distintivi, al fine di attivare un confronto, su attitudini individuali ed esigenze collettive, che sia realmente fertile e produttivo per tutti.
Mi metto di lato dunque, rifiutando di dare istruzioni a distanza. Nell’ottica di una cittadinanza attiva, preferisco attivare un dispositivo che rifletta l’identità del gruppo, alzando l’asticella delle domande, a partire da un rapporto di fiducia che nasca dalla pratica dell’auto-osservazione, dell’immedesimazione, dell’identificazione delle urgenze e dell’ascolto attivo.
Alla luce del fallimento del multiculturalismo e dei paradigmi che fino a poco tempo fa sostanziavano la produzione culturale dell’Occidente, in una società sempre più individualista e globalizzata, dominata dai Big Data e lacerata dagli estremismi, con un divario crescente tra ricchi e poveri, tra centro e periferia, tra Nord e Sud, è possibile riattivare il senso della comunità, il desiderio alla partecipazione e una relazione più autentica con le istituzioni?
Fin dall’inizio della mia esperienza come artista e come educatore, per indole e attitudine, ho attivato un dialogo personale con i miei interlocutori, a partire dalla pratica dell’ascolto attivo, dell’auto–osservazione, dell’immedesimazione, dell’identificazione delle urgenze e della gestione dei processi di mediazione. In Italia, negli Stati Uniti, a Cuba, in India, in Spagna, in Corea del Sud e in Palestina, in ogni territorio in cui mi sono ritrovato a vivere e lavorare, ho creato piccole comunità di pratica attraverso sodalizi generati dalla fiducia e da uno spirito di reciprocità.
Che si tratti di una scuola, di un museo o della cosa pubblica, penso sia necessario instaurare un rapporto più umano con le istituzioni, considerando la controparte non alla stregua di un’entità astratta, ma come un individuo, piuttosto, con cui innescare uno scambio tra pari.
Questa necessità emerge oggi con particolare forza ed evidenza nell’attività di didattica a distanza, davanti a videocamere e microfoni spenti che rendono difficile il dialogo con il gruppo classe. Da quando insegno Drammaturgia multimediale all’Accademia di Belle Arti di Brera ho allora deciso di misurarmi con un solo studente alla volta, a costo di investire un gran numero di ore ed energie durante l’intero anno accademico. Sfruttando le potenzialità delle nuove tecnologie per agevolare un confronto personalizzato, l’esame stesso non è stato concepito come un test alla fine del corso, ma come un percorso a tappe scandito dal tempo.
Ora credo sia urgente, oltre al sistema dell’arte e alla sfera dell’educazione, condividere questa metodologia con altre frange della società, allo scopo di rinnovare e umanizzare le istituzioni attraverso un dialogo uno a uno. Solo così sarà possibile relazionarsi, in modo inclusivo e davvero partecipativo, con comunità complesse.
Quando Martin Heidegger parla della poesia di Friedrich Hölderlin utilizza una metafora a cui sono molto affezionato, quella delle “lente passerelle”. Si tratta di ponti che non sembrano tali, poiché fanno parte dei luoghi tra cui stabiliscono il passaggio. L’esplorazione umana che compio attraverso il mio lavoro avviene percorrendo a fianco dell’altro queste “lente passerelle”. Esse connettono diversi elementi del paesaggio, favoriscono l’incontro, il dialogo e l’apertura. Tali processi richiedono tempo e presenza costante, ma soprattutto fiducia reciproca, osservazione e ascolto. Si tratta, per l’appunto, di un viaggio lento, graduale, in cui l’empatia è il carburante naturale.
Non ho mai realizzato documentari. Non è un tema astratto e lontano a dettarmi la via. Parto sempre, in maniera istintiva, da un’esigenza di approfondimento personale. Sono poi gli incontri con le persone che interpello a indicarmi la strada da seguire. Pongo delle domande e metto in relazione le risposte. La mia idea di arte è una proposta che resta aperta.
Nel 2010, una volta approdato a New York, ho iniziato a sentire la mancanza dei miei affetti più cari. Mi mancava la quotidianità della vita di coppia. Mi interrogavo su come fosse possibile, in una relazione a distanza, accrescere la consapevolezza della propria unione.
“Non c’è essenza senza ‘co-essenza’ e non c’è esistenza senza co-esistenza.” In questo modo Jean-Luc Nancy ha sintetizzato e riproposto la questione del senso dell’essere nel punto di incontro tra gli esistenti, nel nostro essere originariamente gli uni con gli altri. Elaborando una nuova ontologia dell’essere che è, al tempo stesso, singolarmente plurale e pluralmente singolare. Non sussiste presenza che non sia condivisa, non vi è un soggetto che non sia un noi, un “in sé” che non sia con altri, nella simultaneità e concomitanza dell’esistere. Le riflessioni del filosofo francese sull’essere singolare-plurale si sono intrecciate in quegli anni alle mie osservazioni sull’esperienza amorosa, dell’essere-con che rappresenta il vero “prendersi cura” dell’altro, luogo in cui si dà l’essere singolare-plurale di ogni esistente, e a quelle inerenti il concetto di comunità, che è un essere in comune, essere l’uno con l’altro, ovvero essere insieme.
A partire da queste premesse ho deciso di scrivere e distribuire una serie di volantini per conoscere giovani coppie di innamorati da intervistare, nella zona est di Brooklyn, che all’epoca viveva un consistente processo di gentrificazione.
Nasce così, nel 2011, Lover’s Discourse, una videoinstallazione a due canali in cui un gruppo eterogeneo di partecipanti, per etnia, età e sesso, dialogano sul rapporto tra identità individuale e di coppia, all’interno della comunità LGBT e non solo, di Williamsburg.
Il titolo dell’opera si ispira ai Frammenti di un discorso amoroso (1977) di Roland Barthes, un saggio anomalo sul vocabolario dell’innamoramento che, in questo caso, rappresenta un riferimento metodologico, una dichiarazione di intenti. Quello che mi colpiva di quel libro, infatti, era proprio che fosse redatto in maniera volutamente asistematica, con una concatenazione di lemmi di lunghezza variabile, tra introspezioni psicoanalitiche, citazioni dalla filosofia classica e dalla letteratura romantica, oltre a conversazioni, ricordi intimi e note autobiografiche. Un miscuglio di elementi eterogenei che tracciano una personale semiologia dell’amore.
Il mio obiettivo è stato quello di enfatizzare l’entropia del modello di partenza per esplorare cambiamenti, sfide ed esperienze che costituiscono l’identità dell’essere coppia, al fine di indagare l’importanza fondamentale della reciprocità e dell’interscambio con l’Altro, sempre attraverso un rapporto sincero con ognuno dei partecipanti.
Diverse sono le coppie di innamorati che hanno risposto all’annuncio affisso nelle bacheche di bar, club, lavanderie a gettoni e ristoranti del quartiere. Di solito ci incontravamo nello stesso posto dove avevano letto la mia inserzione. A spingerli era la curiosità di capire meglio quali fossero le mie intenzioni, per poi affrontare, attraverso la creazione di un rapporto fondato su familiarità e fiducia, un processo di autoanalisi condivisa. Dopo una lunga frequentazione venivano invitati nel mio studio, uno alla volta. Al terzo piano di un edificio industriale su Metropolitan Avenue, che ospita l’International Studio & Curatorial Program, ho messo in scena il processo stesso di produzione di questo nuovo lavoro, trasformando il mio spazio privato in un set essenziale.
Sebbene abbia optato per riprendere la conversazione con un innamorato soltanto, a rotazione, il sistema di relazioni innescato si è esteso, in realtà, a tutte le persone coinvolte e che rimanda allo spettatore stesso, che diviene il diaframma tra l’affermazione di una soggettività radicale e il mondo, mentre il contenuto dell’immagine si trasforma nel processo stesso della sua rappresentazione.
Addentrandosi nel labirinto di sguardi che compongono e scompongono le relazioni di queste giovani coppie, lo spettatore rivive un’esperienza di formazione. Prendendo posizione all’interno dell’installazione, soffermandosi sull’una o sull’altra storia, può decidere di confrontarsi in modo mirato con alcuni temi piuttosto che con altri, in base alle proprie vicende biografiche. Una costante nella mia ricerca è proprio questa sovrapposizione di sguardi che porta alla costruzione identitaria di un soggetto. Specchiandoci negli altri assumiamo diverse sembianze, producendo nuove corrispondenze, evidenziando mancanze e realizzando conoscenza.
Come ha commentato una ragazza dopo aver partecipato a uno degli incontri aperti al pubblico, in cui la conversazione con un innamorato veniva condivisa con la collettività, “parlare di amore è per molti un tabù, e invece stasera è come se fossimo riusciti ad aprire un grande ombrello sotto il quale in parecchi hanno deciso di stare”.
Di ritorno in Italia ho sentito il bisogno di indagare la condizione stessa dell’artista in residenza, per comprendere meglio la relazione con le istituzioni culturali, gli studi, i territori e le città che, nel corso del tempo, mi hanno ospitato.
The Reverse Grand Tour è un progetto del 2012, realizzato lungo l’arco di un anno grazie a una residenza itinerante in alcune delle più prestigiose accademie straniere di Roma. Un’esperienza mai avvenuta prima, concepita proprio per osservare dall’interno un sistema formativo e culturale unico al mondo e, allo stesso tempo, analizzare l’evoluzione e la natura attuale del Grand Tour, attraverso la relazione degli artisti stranieri con la città.
Proprio lì dove è nato questo modello, tanto in voga adesso e spesso abusato dalle logiche di marketing e di promozione culturale, ho deciso di fermarmi per rimettere in discussione il senso stesso della produzione artistica, attraverso un confronto a quattr’occhi con artisti di diversa formazione e provenienza. Un Grand Tour al contrario perché realizzato da un artista italiano sconfinando tra un paese e un altro, pur rimanendo all’interno degli stessi confini urbani.
Al termine di questo viaggio, una nuova videoinstallazione ha raccolto, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, i ritratti degli artisti che raccontano il proprio punto di vista, ognuno nella sua lingua nativa, assieme a una serie fotografica con le vedute degli interni degli studi in cui viene rovesciato il concetto tradizionale di camera con vista. Fotografie in cui non si ammirano più i panorami e le rovine, bensì il dietro le quinte della creazione: una prospettiva ribaltata per riflettere sull’immaginario e sul ruolo dell’artista nella società dei nostri giorni.
La scelta di presentare questo lavoro all’interno del museo in relazione ad alcune opere storiche legate al Grand Tour e agli autoritratti e ritratti degli artisti del XIX e XX secolo, ha posto la questione dell’attualità del concetto di accademia e, insieme, della relazione tra la capitale e gli artisti internazionali che la visitano e la vivono per tradizione, ogni anno, da secoli. Un paesaggio mobile che vive nella stratificazione della Storia, ma si concretizza, grazie all’esperienza diretta, in un attraversamento costante di luoghi ancorati sì alla tradizione eppure vividi e densi di verità perché abitati ora da nuove generazioni di uomini e donne che ne hanno ridelineato la fisionomia. Un paesaggio umano che si propone di rinegoziare il rapporto artista–società attraverso uno scambio etico tra chi l’arte la produce e chi ne fruisce o ne fruirà in futuro.
Ricordo che un giorno un’artista tedesca mi confidò di cercare un passaggio nel muro per tornare a casa senza dover circumnavigare il parco di Villa Massimo. Immaginava di realizzare uno spiraglio per dialogare con gli abitanti del quartiere, che percepivano quello spazio privato come territorio straniero.
Ogni giorno, in movimento attraverso la città, ho cercato di mettere in pratica un’idea di accademia transnazionale, avviando una modalità di dialogo diffuso su più livelli. In quest’ottica, le Promenades, una serie di passeggiate in cui artisti con diversi approcci e competenze si sono ritrovati a condividere la propria esperienza, vis-à-vis, nel parco di Villa Borghese, hanno rappresentato un’importante occasione per un confronto trasversale, da cui sono emerse proposte valide e articolate per rinnovare il sistema. La scelta di lavorare all’interno delle istituzioni e non all’esterno ha proprio il compito di responsabilizzare i luoghi deputati a ospitare e soprattutto incentivare lo scambio tra le diverse discipline.
Pur spostandomi soltanto da una zona all’altra di Roma, è come se avessi attraversato nazioni e sistemi distanti, in un viaggio senza soluzione di continuità. Ho avuto l’opportunità di confrontarmi con politiche culturali di ampio respiro e ogni volta il mio tentativo è stato quello di adattarmi il più possibile alle regole e alle consuetudini proprie di ogni realtà.
Nonostante in ogni accademia avessi a disposizione uno spazio dedicato, è proprio attraverso il desiderio di partecipazione degli artisti che mi è stato permesso di entrare e lavorare, di volta in volta, nei loro studi, in condizioni sempre delicate, in bilico tra le relazioni individuali e i rapporti con l’intera comunità. Spostarsi di continuo da un posto all’altro implica inevitabilmente una perdita, un sentimento di nostalgia e spaesamento che mi premeva testimoniare. Ripensando al concetto di comunità come munus, ho sentito il dovere di mettere in discussione il sistema, mostrandone debolezze e virtù. Per quanto ogni accademia sia regolata al proprio interno da equilibri piuttosto definiti, è emerso chiaramente che nel viaggio in sé, nei valichi e negli attraversamenti, la moltitudine viene a perdersi e il concetto di comunità si sfalda. L’obiettivo del lavoro è stato proprio quello di tentare di ricomporre questa “unità di molti” che esiste nella realtà solo per frammenti.
È una questione di inclusione: rispetto al momento storico in cui viviamo non possiamo che essere presenti. Presente ognuno a suo modo, attraverso un inevitabile e soggettivo processo di riconnessione con la realtà. Considero oggi la presenza quasi come un dovere per gli artisti, tanto più per quelli più giovani, che corrono il rischio di chiudersi all’interno di un sistema che ha poco da condividere con il sentire comune. Non mi riferisco alla corrispondenza tra arte e vita, ma piuttosto alla necessità di ricollegarsi in modo autentico a sé e agli altri. Spostando l’attenzione dall’opera d’arte al ruolo dell’artista nel processo di evoluzione della società, è chiaro che l’artista può divenire un interlocutore centrale nelle dinamiche comunitarie solo grazie a un confronto denso e duraturo sia sul piano individuale che su quello collettivo. Proprio per questo motivo ho sentito la necessità di confrontarmi con altri artisti, per osservare e mettere in discussione il sistema dall’interno, in prima persona.
Ogni viaggio diventa un percorso, un progetto di indagine sociale e concettuale, un’opportunità per esplorare la relazione tra luoghi, sguardi, esperienze e prospettive.
Grazie a una International Artist Fellowship promossa dal MMCA National Museum of Modern and Contemporary Art Korea, nel 2014 mi sono trasferito a Seoul, metropoli a cui sono particolarmente legato per il forte contrasto tra innovazione e tradizione che la caratterizza, così come per l’accoglienza che mi è stata dedicata. Per queste ragioni ci sono tornato diverse volte, per occasioni espositive, talk e seminari presso le università locali, sempre sotto la spinta di approfondire i modi in cui arte ed educazione possono incontrarsi e produrre contenuti.
Nonostante fossi abituato a viaggiare, è stata la prima volta in cui vivevo in Estremo Oriente per un lungo periodo di tempo. È stata un’esperienza diversa rispetto ai viaggi da turista. Vivere in un paese denso di contraddizioni come la Corea mi ha portato a cercare, nella quotidianità, una connessione con gli altri che non poteva passare attraverso la lingua, dato che non parlo coreano.
All’inizio mi scontravo con questa barriera, forse proprio per il background in drammaturgia, per l’importanza che ricoprono le parole e il linguaggio nella pratica della relazione. Nonostante i curatori e gli studenti con cui avevo a che fare parlassero inglese, con accento americano impeccabile, al di fuori dei luoghi deputati, oltre il campus universitario e il museo, non avevo modo di confrontarmi con gli estranei. Da qui ricordo che nasceva e cresceva in me una forte frustrazione, dovuta all’impossibilità di comprendere chi incontravo.
Anche solo andare al supermercato e spostarsi da un quartiere a un altro è piuttosto difficile in una città come Seoul. Non riuscivo ad adattarmi, a integrarmi. Finché ho iniziato a frequentare la comunità di Hwagyesa, nata attorno al tempio buddista fondato a ridosso della montagna di Bukhansan, nell’area settentrionale della città. Lì ho compreso che, probabilmente, il modo migliore per avvicinarsi a un estraneo ed entrare in contatto con quella società sarebbe stato, più che per mezzo della parola, attraverso modalità legate alle abitudini e tradizioni locali, come la meditazione, il silenzio, l’osservazione e la contemplazione.
Da questa esperienza è nata la ricerca per una nuova opera, Darye, a metà tra un workshop e una performance, un dialogo intimo e allo stesso tempo un incontro aperto al pubblico, in cui tutti potevano partecipare. Per quest’occasione ho invitato un eterogeneo gruppo di artisti coreani, che si esprimono con approcci differenti tra teatro, musica e arti visive, a bere un tè assieme in un hanok all’interno dell’Art Sonje Center, una casa tradizionale di legno costruita, nel XIV secolo, nel cortile di quello che oggi è uno dei centri d’arte contemporanea tra i più attivi a livello internazionale.
Da questa occasione è emerso un flusso di pensieri, confessioni e ipotesi intorno al ruolo dell’artista nella società contemporanea e al rapporto di ciascun partecipante con le tradizioni e le istituzioni.
Il titolo dell’opera fa riferimento a una forma tradizionale di cerimonia del tè che è stata praticata in Corea per oltre mille anni e il cui elemento principale è la naturalezza nel gustare il tè in un ambiente informale. Questo tipo di cerimonie vengono ripristinate, nella vita frenetica coreana, allo scopo di ritrovare relax e armonia.
Con questo lavoro ho riattivato una pratica fondata sul desiderio di confronto con comunità e territori, indagando un reciproco senso di appartenenza attraverso l’esperienza di prima mano. In particolare mi interessava approfondire le modalità attraverso cui le giovani generazioni di artisti riflettono sull’influenza della tradizione locale all’interno della propria ricerca. Significativa la testimonianza di uno di loro che ha descritto la convivenza, nel processo creativo, di una sensazione di smarrimento con una certa libertà nella produzione di nuove composizioni, come conseguenza del fatto che tutti gli strumenti dell’opera e del teatro coreano siano stati distrutti in seguito all’occupazione giapponese.
In ambito accademico poi, la suddivisione tra studi legati all’arte classica orientale e a quella moderna occidentale, ha creato una dicotomia indissolubile tra chi sceglie di attingere al passato e chi si proietta in avanti, attraverso una presa di posizione che ha a che fare con le radici non solo estetiche ma anche geopolitiche dell’arte.
La conversazione avveniva sempre con una persona alla volta, per quanto la presenza del pubblico palesasse l’intenzione di coinvolgere la collettività all’interno di un nuovo esperimento ispirato allo studio delle dinamiche di gruppo e all’identità delle comunità, quelle geografico-culturali e quelle legate al sistema dell’arte. Esplorando codici condivisi, specchio e origine di vecchi e nuovi immaginari collettivi, sono emerse traiettorie distanti, attitudini personali e politiche a più ampio raggio che utilizzano le tradizioni e le arti contemporanee per catturare l’attenzione di fruitori internazionali. Basti pensare alla diffusione del cinema coreano o alla musica K-pop, le cui hit nascevano come riscrittura di canzoni popolari occidentali e oggi occupano i primi posti in classifica a livello mondiale.
È proprio sulle radici culturali del binomio Oriente-Occidente che si gioca una delle partite più importanti nel processo di rinnovamento della società contemporanea, costantemente in bilico tra spiritualità e materialismo, collettivismo e individualismo.
Il concetto di identità è in stretta relazione con quello di comunità, nella misura in cui l’esperienza intima condivisa da un individuo diviene la chiave di accesso alla verità di un determinato gruppo sociale. In questo modo si attiva un movimento circolare, ed è proprio l’efficacia di questa interazione rituale che, responsabilizzando tutti i partecipanti alla valorizzazione delle relazioni, costituisce il vero collante del legame comunitario.
Fondamentale in questo senso l’equilibrio che si crea tra artista e comunità, in termini di apertura, trasparenza, interesse reciproco e comunicazione. È un processo di negoziazione delicato, tra dare-ricevere-ricambiare, che presuppone la condivisione di responsabilità tra le parti nella creazione di qualcosa di nuovo.
La componente temporale così come la partecipazione volontaria sono i due presupposti essenziali per instaurare una relazione significativa con l’altro. A prescindere che si tratti di un libro, di un film o di un’installazione, la mia metodologia di ricerca prevede una prima fase di raccolta di materiali sul campo e una seconda di riscrittura drammaturgica ed editing finale. A partire dal confronto, in seguito l’obiettivo è di ricomporre la molteplicità dei punti di vista in un unico sguardo personale. Lo scambio corale con i diversi soggetti è importante tanto quanto la necessità di rendere accessibile il lavoro, nella sua sintesi formale, attraverso il filtro di una autorialità individuale. Lo spirito di reciprocità che caratterizza la fase processuale infatti è fondamentale anche nel momento dell’esposizione, in cui la collettività ha la possibilità di creare un nuovo dialogo, diretto e singolare, con ciascuno degli individui coinvolti nel corso della produzione. In questo modo, se si riesce a instaurare una relazione attiva tra artista, comunità partecipante e pubblico finale, l’opera d’arte può rispondere alla sua funzione di educazione radicale.
A partire da queste premesse, significativa è stata l’esperienza delle relazioni instaurate a livello locale in occasione di Portami al Confine, una videoinstallazione prodotta nel 2017 per il decennale del MUSMA Museo d’Arte Contemporanea di Matera e ora ospitata in modo permanente in una delle sale di Palazzo Pomarici. Venticinque rifugiati, contadini, minori, operatori sociali e anziani si interrogano sulle possibili modalità per vivere assieme.
Rispetto al senso di comunità, quello che mi interessava indagare è il concetto di capacity, un termine inglese che si può tradurre con la potenzialità di contenere qualcosa di esterno. In questo caso l’ho interpretato con il grado di accoglienza. Quanto la comunità fosse in grado di tollerare l’altro: lo straniero, l’immigrato, il turista.
Per comunità non intendo solo i materani, ma mi riferisco alla comunità di pratica costituita dalle persone che si sono ritrovate attorno a questo progetto, provenendo anche da regioni limitrofe, con un obiettivo comune.
L’opera finale non è da intendere come una scadenza o un punto di arrivo, bensì come il frutto del tempo, delle collaborazioni stratificate e della continuità del lavoro nella regione. Primo passo per accendere la curiosità dei partecipanti è stata la distribuzione di un poster con una missiva dedicata alla città, per la quale mi sono ispirato alla Lettera ai Materani del 1978 dello scultore Pietro Consagra. I partecipanti ne portavano via uno in cambio della loro collaborazione. Poster che ancora oggi vedo affissi nelle case delle persone, sui muri accanto ai manifesti pubblicitari, negli uffici comunali, nelle scuole, in giro per Matera.
Trasformando il museo in uno spazio dedicato all’accoglienza – da non intendere come un gesto, ma come un percorso di accompagnamento – ho pensato a una mostra che non fosse solo occasione espositiva ma anche di produzione, incipit per un laboratorio di formazione permanente nel territorio.
L’obiettivo della mia ricerca non consiste solo nel creare un’opera, ma nell’aprire uno spazio, attraverso la sua creazione, per porre delle questioni. In questo senso, l’idea di confine coincide con una possibilità, una valenza attrattiva in termini di relazioni che si possono allacciare tra gli individui. Il confine, dunque, non come linea che delimita, ma come spazio in cui ci si ritrova a condividere un’esperienza. Ed è quello che succedeva durante i workshop attivati nelle sale del museo. Chiedevo ai partecipanti di esporsi interpretando la propria idea di confine, per confrontarsi con quella degli altri. C’è chi ha attribuito il concetto di confine alla vulnerabilità interiore e chi invece ne ha parlato in termini filosofici e politici. Li invitavo poi a mettere per iscritto la loro nuova idea di confine, che appariva inevitabilmente cambiata in seguito al confronto. Ciascuno la condivideva ad alta voce dando vita a una conversazione collettiva senza più alcuna linearità. Mi interessava spostare i limiti di ciascuno per spingerli ad assumere il punto di vista di un altro, che sentivano vicino o distante. Successivamente uscivamo dal contesto protetto del museo e scendevamo in strada. Ciascuno ha lavorato sul proprio confine, tentando di superarlo, cercando la propria chiave per oltrepassarlo. Portami al Confine rappresenta il tentativo di ogni partecipante di condurmi là dove si innesca la relazione con la collettività. I luoghi scelti da ognuno hanno delineato i punti di partenza in cui ho ambientato nuove conversazioni per la videoinstallazione finale.
Il processo rimane nascosto e palese allo stesso tempo. La tecnica col tempo si è affinata, eppure, ogni volta, io stesso spingo i confini della mia azione in nuove direzioni.
Solitamente coinvolgo solo le persone con le quali riesco a instaurare un buon dialogo, costruendo una relazione nel tempo. Pongo loro domande derivanti da un’attività laboratoriale condivisa. Dalle prime domande si generano risposte e riflessioni che poi trascrivo, tra le quali creo associazioni attraverso la pratica della riscrittura. Si delinea quindi una conversazione che non è mai reale perché, seppur avvenuta in un dialogo uno a uno, è rimessa in scena secondo un ordine differente che associa e discosta i punti di vista. Si genera così una nuova socialità: un ritratto collettivo, una scultura sociale a partire da punti di vista individuali che producono, assieme, una nuova interpretazione della comunità.
Ho sempre cercato di stabilire un rapporto peculiare in ogni incontro. I singoli scelgono di partecipare. È da qui che nascono le storie: dall’esigenza di essere ascoltati, anche da se stessi. Si potrebbe dire che l’opera genera un dispositivo di condivisione, a partire dal fatto che tu abbia qualcosa da dire e che scelga di dirlo proprio a me.
Il dovere di dire la verità resta oggi agli intellettuali e agli artisti. Un compito caratterizzato dalla scelta quotidiana di correre rischi. “Il pensatore che non assuma come riferimento il valore della verità nella lotta politica non può affrontare responsabilmente l’esperienza del vivere nella sua interezza”, ci ricorda Edward Said.
Rispetto alla responsabilità di re-immaginare il mondo, la scommessa, a mio avviso, sta nell’individuazione di modalità alternative di relazione e, in particolare, nel poter disporre di ulteriori possibilità di scambio. Un rischio che nasce non solo se si attiva una relazione comunitaria, ma già quando si riesce a innescare un dialogo significativo con una sola persona. Come in una relazione d’amore, se non è reciproco non funziona.
L’incontro più emblematico in questo senso è stato quello con l’attore palestinese Saleh Bakri, che, nel 2019, ha portato alla realizzazione della videoinstallazione intitolata Dialogue with the Unseen. È ancora Said a scrivere: “In tempi oscuri avviene molto spesso che i cittadini di una nazione affidino il compito di rappresentare la propria sofferenza alla figura dell’intellettuale, che ne diviene testimone e portavoce”. Nel mio caso, la questione fondamentale era quella di conciliare la mia identità, le caratteristiche della mia arte e visione della società con l’identità, la cultura e la storia palestinese, spesso rappresentate in modo retorico, ideologico e superficiale.
Ho conosciuto Saleh Bakri a Haifa, nell’estate del 2014, mentre a Gaza infieriva l’operazione Protective Edge. Non è stato semplice, al telefono o via mail, comprendere le intenzioni l’uno dell’altro. Eppure, quando mi ha invitato per un caffè sul suo terrazzo affacciato sul mare, le barriere si sono dissolte ed è nato un sodalizio di cui vado particolarmente orgoglioso ancora oggi, sia a livello umano che professionale. La figura di Saleh Bakri è emblematica non solo per i ruoli che ha scelto e interpretato sul grande schermo, ma anche per le posizioni assunte come intellettuale simbolo della nuova generazione palestinese a livello internazionale. Non era un attore ciò che cercavo, ma un individuo consapevole, in grado di mettersi a disposizione per ascoltare le urgenze della comunità locale.
Dopo una serie di incontri, conversazioni e confronti, abbiamo scritto a quattro mani una storia alternativa all’occupazione e alla guerra, con l’intenzione di dare visibilità a individui per lo più sconosciuti ai media tradizionali, eppure impegnati, quotidianamente, in atti di resistenza creativa. Quel che mi interessava infatti erano le strategie che i singoli attivano, a livello comunitario, per superare il trauma. Credo che questa sia poi la funzione dell’arte, spostare la prospettiva rispetto ai punti di vista a cui siamo abituati, per evitare di perpetuare uno schema che si ripete sempre senza evoluzioni.
Proprio a partire da quel contesto specifico il mio obiettivo era narrare una storia universale, perché tutti, al di là della propria origine, formazione e appartenenza religiosa, entrando all’interno dell’installazione, potessero porsi delle domande semplici, e profonde allo stesso tempo, sul senso del divino, della natura e della società.
Attraverso lo sguardo del DJ Eisa Khalifa, rivolto a Nazareth, al tramonto, dal Monte del Precipizio, e la voce concreta della poetessa Asmaa Azaizeh su quel che resta della vecchia Haifa, Dialogue with the Unseen esplora il senso di appartenenza e l’identità culturale di una comunità che resiste.
Saleh Bakri cammina lungo un sentiero nel deserto roccioso del Negev, attraversa il paesaggio lunare del cratere di Maktesh Ramon, e la scena, ripetuta in loop, si trasforma in un’immagine ipnotica, astratta e metafisica. Il pubblico è invitato a muoversi nello spazio, a immergersi in quel paesaggio e a confrontarsi con vedute differenti, che possano rimettere in discussione la propria considerazione del concetto di invisibilità.
Uno dei miei obiettivi, come artista, è attivare desiderio di relazione e capacità di azione, sperimentando modalità alternative a quelle che già conosciamo. Lo spazio delle relazioni è anche uno spazio di resistenza, nel quale si impongono possibilità che ci permettono di vedere le cose da un punto di vista inedito. Tuttavia, non credo che si possa raggiungere questo risultato se si intendono la partecipazione e la relazionalità come fattori esclusivamente interni alla pratica artistica. Il confronto, l’ascolto attivo e l’individuazione delle urgenze sono possibili dialogando, uno di fronte all’altro. È una questione di responsabilità. Perché fai arte e cosa cerchi? Assieme all’esigenza di affrontare questa domanda sul piano individuale è diventato sempre più importante per me il ruolo della fiducia nelle relazioni. Questo vuol dire fare i conti con le diffidenze che inizialmente caratterizzano le dinamiche relazionali e, soprattutto, con la continua possibilità di rinegoziare, secondo diverse strategie, le proprie prospettive.
Se la verità è illimitata e incondizionata come una terra senza sentieri definiti, il mio tentativo è stato quello di tracciare alcune vie, percorse in prima persona. Nell’arco di un ventennio ho indagato e raccontato storie diverse, estratte da contesti comuni e poi ricomposte, come i tasselli di un mosaico, all’interno di un’immagine d’insieme.
Per il filosofo francese Jean-Luc Nancy “ciò che l’arte può trasmettere è una determinata formazione, configurazione o percezione di sé del mondo contemporaneo”. La partecipazione e la conoscenza attraverso le immagini sono dunque allo stesso tempo uno strumento e un obiettivo di cui oggi dobbiamo tener conto.
Universale significa andare nello stesso verso, stare nella mente e nella pratica senza distinzione, e in tal senso la condivisione attraverso la fiducia, non solo dell’altro, ma anche nello stesso legame sociale, costituisce una delle chiavi centrali della mia ricerca.
È anacronistico continuare a operare in modo isolato all’interno del proprio studio o solo in contesti deputati, producendo opere che ottengono spesso il risultato di allontanare il pubblico. Credo che l’arte debba tornare ora a vibrare con la realtà, affinché si assottigli quel divario rispetto a chi è ancora convinto che quello di cui ci occupiamo sia un lusso.
Attraverso una riconfigurazione delle dinamiche di produzione ed esposizione, per mezzo di un approccio più empatico, autentico e umano, possiamo adesso, come artisti, fare la differenza. Se ci guardiamo negli occhi, e impariamo ad ascoltarci, uno alla volta.